Forse questo sono, folle





Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto una isterica...

(Alda Merini)


Io esco da questo castello, passeggio incerta, ogni tanto mi volto.
Ancora sono sul ponte, quel ponte levatoio che mi ha accolto un giorno lontano.
E se vuoi, se hai tempo, se ti piace ascoltare i miei vaneggiamenti, ti racconto la mia storia.
Di quando mi avvicinai, che ero lacera io, senza scarpe ai piedi, piena di fame e di sete e di freddo.
Così freddo avevo che ho cercato un riparo piccolo di fianco al muro, tra il fossato e le mura del castello: perché sai, davvero non potevo vivere morire. E non era nemmeno la prima volta che mi succedeva, di essere così, condannata a non stare da una parte dall'altra.

Mi sono posata lì, pensando che forse il vento mi avrebbe lasciato stare: nemmeno speravo più, tanto ero lacera e ferita.
Ho posato il capo sul muro, che era di pietre enormi, massi levigati e ben posti uno sopra l'altro. Era un muro forte, imponente. Pensai che posare il capo lì sarebbe bastato.

Invece inaspettato, si spalancò il portone e io entrai, così, piano piano, che fuori soffiava il vento così forte e quello pareva l'unico riparo.
Lo era, l'unico riparo che ho trovato.

Si è chiuso il portone alle mie spalle, e nemmeno ho guardato io se il ponte levatoio era ancora abbassato: il futuro non esisteva per me, e nemmeno la necessità di una via di fuga. Vivevo un presente in cui non potevo vivere morire.

Entrata a piedi scalzi, ho trovato un giardino ampio, di terra battuta, spazioso e soleggiato.
Le pietre erano scaldate dal sole, e io mi sono seduta lì, in un pezzo di quel giardino dove le piante erano poche ma rigogliose, dove un pozzo antico penetrava nelle viscere della terra e portava acqua preziosa per me, che mi veniva data da bere a piccoli sorsi.
Troppa era la mia sete, troppa la mia fame, troppa la mia stanchezza.

Un po' alla volta e quasi senza rendermene conto, ho ripreso vigore.
Mi sono guardata intorno e ho visto le finestre, quante finestre scure che davano sul giardino interno, dove io ero lì, silenziosa e nascosta, per mio volere nascosta, mentre cercavo di riprendere le forze, e mi guardavo intorno.

Poi vidi il sultano, che camminava irrequieto, avvolto nel mantello rosso di cui tanto ho scritto e cantato; si muoveva lesto e turbato, alla ricerca di soluzioni per grandi problemi e strategie per tutelare il futuro, e descrizioni di mosse e previsioni, un eccellente giocatore di scacchi forse, e a grandi falcate camminava nel recinto che lui stesso aveva creato e con fare brusco sollevava il suo mantello, ma questo che era grande si impigliava sempre in qualche ramo; e lui lo strappava via, lacerandolo un poco. Il sultano era sempre intento a fare cose, sempre con lo sguardo oltre il cielo, sopra il muro alto del suo castello, per questo mi aveva visto, che lui sempre guarda lontano.
Il mantello che lui spesso con gesto stizzito spostava dai fianchi, si lacerava impigliandosi nei rovi che erano cresciuti selvatici, che cercavano di trattenerlo e di fermarlo. Io lo guardavo quel mantello che mi affascinava più che i muri della fortezza in cui ero: era un mantello così bello, tessuto di fino, con il bordo di broccato, e la lana morbida, che io avrei voluto averlo un mantello così, ma mai lo avrò. Guardavo il mantello e poi guardavo le mie vesti che erano stracci, vecchi tessuti preziosi consumati dalle intemperie, privi di consistenza e di potere; logori e privi di materia erano i tessuti di cui ero vestita.

Stetti zitta a guardare, in silenzio, che non volevo che mi cacciasse da lì.
Ancora quell'acqua volevo bere, ancora quel tepore che dai muri scaldava la mia pelle scorticata e poco a poco sanava le mie ferite: forse il bisogno di vivere prendeva il sopravvento lentamente.

Il sultano era un uomo potente e gentile, mi diede di che vivere e sopravivvere, che nemmeno lui se ne accorse. Poiché non davo fastidio mi lasciò restare nel suo giardino e lì, riparata dal mondo, io restai, muta mentre guarivo.
Ma un giorno sentii la vita dentro di me e fu così che io ballai per lui, appena le forze penetrarono nelle mie fibre, io ballai per lui, nuda, con i seni scoperti, i piedi nudi, la gola in mostra, senza paura, ballai, prima passi lenti, accenni di danza, quando ancora la musica non c'era.
Poi, con il tempo, allargai anche le braccia, e le sollevai al cielo, e mi mossi a ritmo di una musica che era la mia, mentre lui mi guardava stupito, che forse non si era nemmeno accorto che io ero ancora lì, che avevo così tanto preso dal suo giardino, e che durante l'inverno avevo raccolto con pazienza tutti i brandelli del suo mantello
e durante le notti scure e silenziose io le avevo ricucite, e avevo ricomposto il mantello come era un dì, e con quello mi ero coperta e mi ero pavoneggiata specchiandomi nel pozzo.

Io, vestita del suo mantello, mi specchiavo nel suo pozzo.

Lui aveva visto, e ammirato, ma era rimasto silenzioso lui, che un sultano gentile è un gigante solo nei muri ma fragile è nel giardino, lontano dai nemici e dal mondo, e anche lui camminava scalzo come me, spogliato di tutto dopo battaglie vittoriose che lo avevano stremato, per questo camminava vorticando con il suo mantello, in cerca di qualcosa che non sapeva nemmeno lui cosa, camminava e strappava il mantello quando questo si impigliava sui ghirigori di ferro battuto del pozzo.

E poi, caro mio, poiché la vita era entrata dentro di me, e l'energia era salita, e con essa la forza del fare e del voler essere; poiché, caro mio, la gioia che mi procurava camminare nel giardino era grande, e io dappertutto voglio mettere le mani, che non era più tempo per me di accontentarsi; poiché ero viva e tutto volevo vivere, come una farfalla leggera ho voluto volare intorno, toccare le cose preziose del giardino, e su queste mi sono posata, accarezzandole ciascuna con le mie mani per sentirle vivere dentro di me. Non ho badato ai ricordi delle ferite fresche, ho dimenticato quanta fame e quanta sete mi aveva procurato il mio desiderio di vivere e ho scrutato e respirato e visto e toccato cose che nemmeno il sultano gentile sapeva di avere più, che erano coperte dalle erbe alte, mentre la terra sassosa impediva all'erba nuova di crescere, e il sole abbagliante rendeva ancora più scure le finestre
delle stanze che si affacciavano nel cortile.

Ho ballato ancora, ho cantato, ho sciolto le gambe e ho cercato di farmi aprire le porte del castello, che molte erano le parti del mantello che ancora mancavano e sapevo che là dentro avrei trovato gli strumenti per fare una veste nuova per entrambi: una veste luccicante e setosa, che potesse coprirci durante le nostre notti e diventare riparo per i nostri giorni. Io sapevo che era possibile. Non so stare ferma a lungo, sai, non so stare ferma: finché sarò viva, continuerò a muovermi, e scrivere, ballare e cantare e piangere anche, che ci hanno provato a impedirmi di respirare, ci hanno provato già.
Per questo volevo entrare, aprire le porte, correre nei corridoi, ballare sul pozzo, giocare con il suo mantello, mettermi lì con lui, giocare e danzare insieme. Fare le cose insieme. In due, capisci, in due.

Invece no.


Potevo stare lì ancora a lungo: lui aveva bisogno ancora di tempo, ancora doveva capire chi ero, perché ballavo felice anche se ferita, perché lo fissavo intensa e non chiedevo cose, ma prendevo tutto ciò che di bello c'era: le vesti ricamate, le foglie carnose, l'acqua fresca, e toccavo le maniglie delle porte che davano accesso ai vani interni, e cantavo, raccontando le parole che lui aveva dimenticato.

Camminavo avanti e indietro io, girando allegra nel cortile, e vedevo attraverso i muri, che la fame mi aveva reso acuta e precisa, e la sete mi aveva reso i sensi attenti alle sorgenti nascoste, e le ferite avevano reso sensibile il mio sentire ciò che non è detto.
E parlavo io, raccontavo io, mentre io guarivo e lui sedeva, attonito, e io ballavo e lui guardava.

Poi, un giorno, ho capito che non potevo più: che continuare a ballare così mi sfiniva, e ancora ero fragile, la malattia non completamente sparita, le ferite ancora fresche, alcune con cicatrici chiuse, e la fame e la sete ancora memorie fresche e ho detto vado, prima che mi faccia troppo male io vado.

Lui mi ha lasciato andare, in silenzio, stretto nel suo mantello ha lasciato che io aprissi il portone e spingessi le porte spesse, e con grande fatica facessi rotolare giù le corde del ponte levatoio, che con stridore è sceso e i palmi delle mie mani ha bruciato, mentre lui non diceva nulla, silenzioso si guardava i piedi, e la terra battuta, e le mura spesse che lo proteggono, e le mille finestre del giardino, e ha lasciato che io uscissi.

Io sono uscita, che lì non potevo più stare, perché non si tratta di prendere e non dare, non si tratta di volere le cose, i muri, ma si tratta di essere i suoi passi, volteggiare con il suo mantello, volare con il suo sguardo, essere accolta nelle sue stanze, dove avrei camminato con passo lieve, perché ho visto calpestare terreni più fragili e rose bianche.
Perché io so.

Sono uscita: che male che fa, caro mio, che male che fa ogni volta.

Ora cammino così, sulle pesanti travi che corrono sopra il fossato, di cui vedo le acque limacciose che dividono il castello dal resto del mondo, e i chiodi di ferro battuto che tengono insieme le assi, e su quelle il mio passo incerto, che ogni tanto mi fermo, mi fa paura il mondo, davvero, non ho protezione io, solo una veste leggera fatta con i pezzi lacerati di un mantello, e intorno il prato verde
ampio e senza rifugi, e lontano alla mia sinistra un bosco fitto, di alberi scuri e ritti,
e davanti nemmeno un sentiero e alle mie spalle il castello e un sultano seduto solo su un trono, ad ascoltare l'eco dei miei balli e il suono delle mie risa, ma anche le mie parole taglienti, e i miei canti tristi, e la mia presenza certa, silenziosa mentre lenta guarivo e proteggevo quei terreni e quei pensieri.

Cammino in silenzio, non guardo avanti che il vuoto mi fa paura, ma improvviso ti ho visto, un lampo, sfuggente che sei, uscito con clamore dal bosco, veloce su un cavallo al galoppo, un drappo che sventola, una lancia in resta, i capelli sciolti e scomposti, un grido di trionfo, per te, solo per te è quel grido, mentre galoppi e compari al mio orizzonte, e io ti guardo veloce, e tu mi fissi negli occhi e mi sorprendi, mi sorprendi e mi scavi dentro, che io ti ho guardato una frazione di secondo negli occhi e ora rotoli in me, e scompari, che non posso nemmeno voltarmi indietro a vedere che fa il sultano triste che tu sei arrivato e scappato, e ti cerco con gli occhi, ma ho l'immagine di te dentro di me, di quell' cavalcare sicuro e anche stanco, di quel tuo volerti mostrare a me bello e splendente e nello stesso tempo
misurato, come fosse l'ennesima prova di coraggio, l'ennesimo laccio gettato nell'aria, e forse l'ultimo grido, come se ti fosse scappato, che fiducia di trovare risposte non hai.

Ti cerco con lo sguardo e non ci sei più, ma ancora le zolle sono sollevate dagli zoccoli del tuo cavallo e quindi per di qui sei passato, e non importa se sei solo una mia idea, una illusione che mi sono fatta, io ti ho visto, tornerai e io sarò più attenta, e mentre cammino da sola ancora guarderò da dove sei arrivato, che anche se sei un cavaliere di ventura e non cerchi me, anche se ti fossi sbagliato e avessi creduto che sono ciò che in realtà non sono, (che non sono bella io, non sono potente io, non sono giovane, non sono libera, non ho un cavallo, non ho una spada, non ho le vesti, non ho una meta) se anche ti fossi sbagliato tu, io comunque ti guarderò negli occhi,
e anche solo averti visto e aver udito il tuo grido, chissà...


Taccio.
Non dico, ma penso, penso che tornerai, e dove tutto è irrazionale sempre più, contro ogni regola e ogni ragionevole aspettativa, io dico che tornerai, verrai a cercarmi cavaliere di ventura, e forse salirò sul tuo cavallo cosicché possa più velocemente allontanarmi dal castello del sultano triste.

Cammino intanto, sto in silenzio per raccogliere i miei pensieri che turbinano di notte mentre li imbriglio di giorno, che ho una scrivania nuova e uno studio con due finestre, e tante cose da fare e da inventare, che finalmente adesso all'anima mia è dato spazio per correre e pensare, e nel frattempo cammino e mi allontano dal castello; ma so che tutto è possibile, tutto è concesso, anche farsi un abito nuovo con i pezzi lacerati di un mantello, anche sopravvivere bevendo gocce da un pozzo, anche ...


E forse questo sono, folle.






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