Era aprile.


E quindi ho trovato lavoro.

Mi hanno chiamato e non si dice di no al telefono. Si va lì e si dice di no quando si è lì.

Così sono andata, sbuffando: una sostituzione di maternità, figurati...
Infatti.

L'ufficio ha sede nella parte più prestigiosa della città: Prato della Valle. Ma appena apri il pesante portone antico, ecco che subito capisci che gli architetti bisognerebbe riformarli tutti, specie quelli che con la complicità di proprietari senza sentimento, hanno fatto scempio di antichi palazzi sventrandone l'interno per farne uffici e appartamenti dove non solo il feng shui è "roba da cinesi", ma dove chi entra ha subito la sensazione di soffocare.
L'ufficio si apre in un budello lungo e triste, le finestre se ci sono danno in cunicoli bui, cortili interni tristi e grigi.
Entro nel corridoio e nessuno viene a prendermi. Tutto intorno un brusio operoso mescolato alla penombra, confuso con scatoloni accatastati, come se si fosse in procinto di fare un trasloco, una vaga luce grigia e fredda, questo posto fa schifo, lo sapevo, sembra un magazzino abbandonato.

Accosto il portone dietro di me, non lo chiudo proprio, quasi vorrei non fare rumore e poi mi volto di nuovo verso il corridoio un po’ titubante e mi fermo, ascolto I rumori (che faccio, scappo?) e improvvisamente dò un colpo secco al portone e lo faccio chiudere di scatto, clak! : qualcuno verrà a prendermi, io non vado ad aprire porte che non so, potrei quasi essere all’interno del film Matrix, metti che apro una porta e mi si spalanca un baratro che…. dietro di me suonano alla porta, si sente immediato un clic e il portoncino si apre alle mie spalle, io mi volto e poso la schiena al muro.

Voglio vedere cosa succede adesso.

Sento un passo veloce che sale gli scalini, rumore di tacchi ritmici che salgono di corsa le scale. Il portoncino si spalanca, lei entra di corsa, io sono trasparente, nemmeno mi vede, mi corre davanti in velocità, prende uno svincolo del corridoio e ci si infila correndo. É bella, giovane e magra: ha I capelli biondo cenere mossi alla farat Fowcett (e lei sicuramente è troppo giovane per sapere chi era la farah Fawcett, nnn so bene nemmeno io come mai ho fatto questa associazione mentale). Ha un delizioso vestito a fiorellini, con la gonna leggera a fiori che le lascia scoperte le ginocchia nervose e un po’ abbronzate e ha I sandali aperti, con il tacco che sarà un 6 centimetri, le unghie dei piedi curate, accidenti siamo ad aprile e questa corre già con I sandali aperti estivi, scarpe bellissime lo capisco pure io che non capisco niente. Mi piace la sua corsa, vorrei correre anche io con un bel vestito a fiori, I capelli mossi appena trattati dal parrucchiere, le scarpe nuove con il tacco, invece sono in piedi in un corridoio grigio con un paio di jeans che appena a casa li butto, giuro che li butto, una camicia che avrà cento anni e io ne ho almeno duecento oggi, tanto è vero che tengo lo sguardo basso e guardo le scarpe della ragazza che corre e non so nemmeno che faccia abbia. Alzo lo sguardo.

Davanti a me, sbattuto dentro una teca, le braccia aperte, sembra un Cristo senza testa e senza corpo, un giaccone marca Belstaff grigio scuro, con una targhetta vicino con l’anno di fabbricazione, e lui chiuso sotto vetro, incorniciato e appeso al muro, mah davvero non capisco nulla, che ci fa un giaccone dentro una teca? Non è certo il posto per me questo (e mi affiora il ricordo di Alessandra che tanti anni fa fiera mi raccontava di aver trovato, dopo parecchie ricerche, lo spaccio della Beltstaff, dove era andata -60 chilometri ad andare e 60 a tornare- e dove aveva finalmente comprato per sua figlia di 6 anni la giacca della Belstaff, quando andavano di moda con la cintura legata dietro la schiena e lei aveva speso una cifra spropositata per comprare sta giacca primaverile ma, mi aveva spiegato conciliante, ho preso una taglia un po’ più grande così se la sfrutta anche l’anno prossimo. Poi io avevo visto il giorno dopo la bambina con la giacca nuova che usciva dalla scuola, e le maniche erano lunghe e si erano srotolate, e la cintura si era slacciata e la giacca arrivava fino alle ginocchia quasi, e Alessandra aveva preso la figlia e l’aveva sgridata, ma non vedi che ti stai trascinando la cintura per terra? E perchè hai srotolato le maniche? In capo a 15 giorni tutti I bambini della scuola e la maggior parte dei gentiori andava in giro con la giacca della Belstaff, tutti vestiti uguali, cambiava il colore e l’automobile da cui scendevano. Io per fortuna andavo a piedi).

Sento dinuovo I passi veloci : tac tac tac, la ragazza sbuca correndo nel corridoio, ha in mano un pacchetto in una busta trasparente, stavolta la guardo in viso, noto che ha una bella collana etnica e le pietre richiamano subito quelle che ha incastonato nei sandali, interessante questa associazione, penso, se la noto io…Il viso è giovane, pare poco truccato ma invece mentre mi sfiora correndo noto la cipria leggera, un piccolo brufolo vicino al labbro superiore, le sopracciglie inarcate, il fiato corto, e non c’è nulla da dire, è certamente bella, nonostante tutto. Mi piacerebbe seguire la sua scia e correre anche io ma sento la voce di Anita che le dice: -ciao fammi sapere!- .

Poi sbuca anche lei nel corridoio, e per fortuna è sorridente come me la ricordavo, un po’ più piccola di me, con un paio di leggins aderenti sulle gambe grosse, una camicia aperta che le arriva fino a metà coscia, una grassezza portata con nonchalance, una meravigliosa pancetta tonda che protegge due gemelli che si stanno facendo strada. Come siamo stronze noi donne con le altre donne: se sono belle notiamo subito I difetti, se sono normali ci tranquillizziamo ma le analizziamo lo stesso allo scanner. Mi saluta calorosamente e io le rispondo subito:

- fanno tutti così quelli che entrano nel tuo ufficio? Escono tutti scappando di corsa?

Lei ride, ha già il fiato grosso, la pancia comprime un po’ il diaframma, lo so come ci si sente quando non arriva il fiato, e muoverti anche di pochi passi è una fatica fisica che ti costringe a fare lunghi respiri, profondi, per vedere se si riesce a riempire i polmoni di aria. Non ho più l’età per fare figli.

Mi accompagna nel suo ufficio, mi fa sedere di fronte a lei e parla. Io ascolto beneducatamente e mi intristisco subito: lo studio è un ufficio dai muri bianchi, un budello con una finestra che da in un bugigattolo, un pc triste ma almeno con uno schermo piatto, una stampante alla sua destra, una macchina per il fax, e carte, carte dapperttutto e Anita che parla e le viene un po’ l’affanno ma non sembra accorgersene. Strana cosa la gravidanza: anceh io non me ne accorgevo, finchè, alla fine del nono mese, mi ero accorta che non era proprio possibile per me respirare più. Nemmeno lei se ne accorge. Cerca di spiegarmi in cosa consiste il lavoro: non è chiaro. Io mi guardo intorno ma c’è poco da guardare. A destra un armadio è stato sventrato, ci hanno messo dei ripiani e contiene adesso dei raccoglitori di diverso colore e marca con l’etichetta Fatture 2008, Fatture 2009 , clienti 2009 e via così.

Mi viene un nodo alla gola: amministrazione. Carte e carte e controllo di carte. Ma io ho bisogno di un lavoro, accidenti, un lavoro che non sia quello di fare la cameriera come quel deficiente del talebano mi ha suggerito di fare più volte. Anita parla e io non ascolto: sono molto concentrata a pensare di buttare giù il rospo di un lavoro amministrativo. Lei mi guarda e mi dice:

- ecco, questo è quanto. Insomma, non tutto, faccio davvero fatica a dirti cosa faccio io qui. Dimmi tu.

Io? Io vorrei ringraziare, penso che potrei alzarmi darle la mano, dirle grazie sei stata davvero gentile a pensare a me, ma sto posto fa schifo, il lavoro fa schifo, io sto male per conto mio, mi sento soffocare, ciao e grazie mille. Penso troppo in fretta, il mio istinto prevale sempre e così domando:

- mi dici quante ore settimanali?

- 39, 39 ore settimanali.

Stramazzo. Credo di essere scolorita in faccia perchè lei si affretta ad aggiustare il tiro e si sporge un po’ sulla scrivania verso di me, e mi guarda e dice:

- Sono troppe?

- Sì, non posso fare 39 ore settimanali. Non posso, non ce la faccio proprio.

Ho un nodo alla gola: mi sento come se mi avessero già incatenato.

Lei si tira indietro, sposta il bacino un po’ in avanti, pone le mani sulla parte posteriore della sedia e poggia le spalle sullo schienale spingendo in alto quela sua bella pancia tonda. Ci sono due gemelli dentro lì. Due bambini.

- te lo dico francamente. Il tuo curriculum mi piace. Ti conosco. Io ho bisogno di una come te. Qui dentro c’è bisogno di una come te. Guarda, facciamo così, facciamo 25 ore la settimana, le mattine dalle 9 all’una, e due pomeriggi da due ore e mezza. Il lavoro è bello, la gente qui è interessante, sono sicura che ti troverai bene. Il capo è in gamba. Qui si lavora un po’ sotto stress perchè bisogna gestire le emergenze. La ragazza di prima aveva una cliente nel negozio che voleva un capo paritcolare con il bottone di raso blu e non viola. Mi ha chiamato, io ne avevo ancora un capo qui, e lei è corsa a prenderlo. Per quello correva. Fidati, è un bel posto di lavoro.

Vedo che cerca di aiutarmi. Potrebbe essere in effetti. Potrebbe essere. Non so. E poi è un’ora che sono qui e ancora non abbiamo parlato di soldi.

- scusa, lo stipendio di quanto sarebbe?

- Lo stipendio? Ah, guarda, scusami ma non mi sono informata…

E lo sapevo. Lo sapevo e lo sapevo. Tutti bravi a parole, tutti che offrono lavori speciali, interessanti, pieni di opportunità, ma quando poi si tratta di parlare di quattrini… Rilancio la palla: dico che ho bisogno di pensare e valutare, lei concorda con me, e mi dice che mi chiamerà tra 10 giorni, dopo aver valutato altre persone.

Esco. Spero che valuti altre persone. Io non sono adatta, davvero. Uffa.

Mi ha chiamato dieci giorni dopo mentre ero al parco a correre:

- Senti sono nei guai. Ti parlo con franchezza: non è facile trovare una persona come dico io. Qui mi serve qualcuno che sappia risolvere i problemi: io so che tu saresti la persona adatta. Perpiacere, se vieni qui domani mattina, ti spiego alcune cose, che forse non sono stata chiara. Ti assicuro che è un bel lavoro. Fidati. Io non so quanto tempo riesco a restare ancora qui...

Sono andata convinta che avrei detto di no, perchè non adatta. Invece ho detto sì perchè pareva brutto dire di no.

Ho detto sì perchè Prato della Valle ce l'ho nel cuore ogni volta che vi arrivo. Ho detto sì perchè non avrei avuto le ferie e non sarei stata a disposizione del mondo nel gestire i figli e le loro vacanze estive. Sì perchè lei mi ha voluto con tanta insistenza, convinta che io sarei stata la persona giusta nel posto giusto. Sì perchè era tutto così assolutamente diverso da quello che avevo fatto finora, amministrazione e carte e numeri. Sì perchè avevo degli orari fissi e io ho sempre odiato gli orari fissi. Sì perchè era un contratto a termine. Sì perchè avevo tempo due mesi per dire di no. Sì perchè iniziavo il 1° maggio, festa dei lavoratori. Sì perchè avrei avuto la mia prima quattordicesima prima ancora di avere la tredicesima.

Ho detto sì perchè avevo un mucchio di ragioni stupide per dire di sì, e io delle ragioni vere, ponderate, razionali e che mi spingevano a dire di no, non ne potevo più.

Da ieri mi hanno rinnovato il contratto: avrò un ufficio mio, la pianta quadrata e due finestre grandi. Una mia casella di posta elettronica e un mio computer. Non farò più contabilità e amministrazione. Farò le cose che so fare: giocare con le parole, la comunicazione, la vita, i disegni, le cose belle e quelle difficili. Potrò mettere i manichini nel mio ufficio, aggiornarmi sulla stampa, fare le foto e modificarle, studiare i volti e le espressioni, andare al negozio e respirare l'ordine e la pulizia, tornare e scrivere ancora.

Non posso crederci ma sto per ricominciare a vivere. Volevo condividerlo con voi.

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