La vita, l'attesa.


Succede che ti chiamano dall'ospedale e dicono che si fa il trapianto, domani mattina: hai il tempo di correre lì, di metterti la mascherina e il camice, entri, saluti, no il padre no, resta fuori dalla camera, mi guarda, basta uno sguardo, lui sa ma tace (ah uomini, vi adoro, mi fate impazzire, dove sei Semprequello, dove cazzo sei?) mentre la madre e la zia si danno da fare, sono molto pragmatiche e perdono di vista ciò che io e lui abbiamo capito ma non osiamo dirci. Ha una pancia enorme lui, e c'è anche stato un momento (30 anni fa?) in cui mi ero pericolosamente avvicinata io, - che sfrontata mi ero presentata senza mutande, seduta in cucina con tutti quanti mentre lui era chino davanti a me e non ricordo perché, aveva alzato lo sguardo e si era accorto che io ero nuda sotto la gonna, una ragazza terribile davvero- e lui pericolosamente non si era tirato indietro, ma poi per fortuna qualcuno di noi rinsavì, e tutto restò a livello di sguardi, che io avevo 16 anni e lui parecchi di più.

le donne si affannano a parlare con i dottori, con la malata, tirano le lenzuola del letto, riassettano il cuscino, passano in fretta le mani sul comodino e riordinano le poche cose che lei ha. Noi restiamo fuori, lui con le mani in tasca che cammina e mi guarda bonario e mi chiede

- come stai?

e si muove, poi tace, gli occhi grandi e vispi e quella pancia enorme, sintomo secondo me di un disagio di vivere: che più siete potenti, o uomini, più siete fragili dentro.

- andate pure a casa, la operiamo domani mattina.

così ci hanno detto. Non ci credo io e nemmeno lui. I dottori ci hanno posato le mani sottili e bianche sugli avambracci e gentilmente ci hanno spinto fuori:

- andate.

Non puoi fare altro che andare. Non c'è nulla da fare.

Ma io credo che la opereranno stanotte. E lo crede anche lui, solo che non lo dice.

- ciao, vado allora

e sono andata via, le mani in tasca nel giaccone che mi fa schifo perché mi ricorda ogni volta che lo indosso, il momento esatto in cui l'ho comprato, e ancora mi viene il nervoso e monta la rabbia verso me stessa e verso il Talebano. L'anno prossimo me ne compro uno nuovo di pacca: questo tiene bene il freddo, ci finisco la stagione. Alzo la cerniera e il bavero con il collo di pelliccia ed esco al freddo della notte. L'ospedale è muto, l'aria ghiacciata, l'oscurità accennata, e io sono sola che cammino verso casa. Vorrei camminare fino a casa, ma mi rendo conto che non è una mossa saggia. Quindi chiamo un taxi.

la opereranno stanotte, che la vita arriva come un soffio: da una parte una perdita, dall'altra una salvezza.

I miei pensieri si accavallano in questa notte di attesa, nella mia casa solitaria: non vado a lavorare domani e forse nemmeno lunedì. E penso.

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