Al Maestro di Cerimonie.



Ieri sera, dopo che siete andate via voi, ho chiuso il cibo nelle scatole, l’ho coperto con la pellicola, ho messo in frigo ciò che andava messo, ho caricato la lavastoviglie con i piatti e tutto ciò l’ho fatto senza pensare, con la necessità che i pensieri scendessero piano invece di ribollire tutti, così densi e diversi.

Ho portato a letto con me il libro che mi era stato regalato, ho aperto l’ipad per vedere cosa era successo in facebook, ho terminato di mandare qualche messaggio e poi sono rimasta lì, ferma, in silenzio con la luce accesa in attesa che il cervello si vuotasse completamente e si fermasse (perché ho avuto parecchi colpi stasera, non sono brava io a gestire le emozioni, oppure è un periodo in cui non riesco a gestirle, o forse ho troppe cose tutte insieme non so). Mentre vago nel vuoto alla parete alla mia sinistra sento un colpo sul muro: forte, come un pugno, BUM. Saprei indicarti benissimo il luogo da cui proveniva il suono, una parete perimetrale della casa, sopra la terrazza al posto del tetto, di fianco il mio bagno.
-No- mi sono detta – i fantasmi no. Non stasera, non adesso, che sono stanca. Voglio dormire.
Ho spento la luce che saranno state quasi le tre e mi sono addormentata nonostante la tavola da sistemare.

(la mia fuga dalla realtà, la chiamava il Talebano, la mia testa nella sabbia come gli struzzi, diceva, ma invece non è così, è che in mezzo a tanto fare ci sono delle cose su cui è bene non incaponirsi, che non dipendono da te, e in mezzo a tanti guai i soldi sono la cosa più facile da risolvere, e mi dico, in qualche maniera farò, so fare tante cose, mi devo dare del tempo per smettere questo lavoro e trovarne un altro, non posso affastellare la mia vita di un nuovo lavoro mentre sono al Lavoro Benedetto e poi Figlio e Figlia, e poi la Zarina e il padre che invecchia, e poi il Talebano, e poi la casa da mettere in ordine, e poi il dente che si spacca, e poi il corpo da seguire, e poi la scrittura da scrivere, e il libro da pubblicare, e il negozio online, e il matto in ascensore, e i blog per le aziende, e l’occupazione notturna del Curiel, e i bicchieri da aprire e lavare, e la Boite da osservare da vicino ma non troppo – perché non troppo, perché?- , e il bonifico della palestra, e insomma no, non posso. Mi devo prendere del tempo, ho necessità di tempo, non è fuga dalla realtà, è come decidere per bene il menù di una cena, scegliere tra le tante ricette cosa fare, e sembra che tu non stia facendo nulla in realtà prepari l’azione futura, così sono io adesso, in cerca di tempo, e sì, domattina sparecchio, adesso dormo, ti prego lasciami dormire. Adesso).

Così, dopo aver dormito mi sono alzata, e tu eri già passata in sala e in cucina e avevi messo tutto in ordine. Non c’era più traccia dei bicchieri della cena, delle briciole di pane, delle gocce di cera rossa cadute per terra, della tovaglia di fiandra di lino. La sala era in ordine, e molto più grande della mia attuale, spazi enormi tra il tavolo e la cucina e la cucina era bianca, immacolata, e subito ho notato come tu avessi cambiato di posto ad alcune cose (succede sempre così quando qualcuno che non conosce la tua casa sposta le cose dove meglio crede, e la zuccheriera finisce in un posto logico ma che non è quello che gli hai assegnato tu, e pare così sciocca questa cosa, e invece è un leggero spostamento fastidioso, come una piccola scivolata). Eppure tanta è stata la sorpresa di trovare tutto a posto che persino avevi chiuso il fuochi del gas con gli sportelli bianchi che erano addossati alla parete e io mi sono stupita perché erano anni che gli sportelli erano aperti, a lasciare i fuochi accesi, invece così erano stati coperti, abbassati, e io mi sono piegata meravigliata a vedere come le giunture che permettevano loro di abbassarsi fossero ben oliate nonostante fossero anni che gli sportelli erano aperti, talmente tanto tempo che non mi ricordavo nemmeno più che fosse possibile chiuderli (erano aggeggi meccanici di ottone, perni di quel giallo cupo che si incastrano tra loro e consentono il movimento a strutture rigide, ed erano fissati con viti tonde e perfette, con la testa tagliata nel centro, tonde con un taglio netto perfetto per un piccolo cacciavite di precisione).

Ho quindi richiuso lo sportello e ti ho abbracciato forte, ed è stato come vivere il racconto di BB, di quando con le costellazioni si era fatta abbracciare da due sconosciuti,  e una doccia violenta di luce gialla mi ha investito la schiena e spinto addosso a te anche se non volevo che ci fosse un impeto così forte che poteva farti cadere fino a trascinarti indietro di qualche passo mentre io entravo nel tuo corpo sovrapponendo le due immagini di noi due, come se non avessimo davvero corpi, e per la frazione di un istante siamo rimaste sovrapposte, entrambi impotenti e sopraffatte dalla luce che mi premeva sulla schiena. Finché tu hai posato le mani sulle mie spalle, perché non avevi mai perso il contatto con il terreno e i tuoi piedi erano ben fermi e così, mi hai detto, io sono una strumento e basta, mi hai allontanato con le mani sulle spalle scostandomi di poco e rimettendomi in piedi, riportandomi lì dove c’era il mio corpo, sono uno strumento io, sono una guida, devi stare attenta a quella donna, (a quale avrei dovuto chiederti ma non potevo parlare tanto ero attonita e stordita, in sala c’era la Franci Iononcicredo che ti aveva aiutato a mettere tutto in ordine, sorrideva e ci guardava- devo imparare, sono qui a vedere come fate- e non era certo lei la donna da cui dovevo guardarmi ma io avevo perso la capacità di parlare e soprattutto dovevo ascoltare, sapevo di non dovermi perdere nessuna parola e chi era la donna da cui dovevo guardarmi?), sono un gran ciambellano io, sono un maestro di cerimonie, non sono dio ma ti conduco a lui, stai ferma e in piedi, non vacillare resisti.

Mi hai detto così, e mi hai dato una leggera spinta all’indietro e io mi sono trovata in una stanza, era una sala d’attesa, doveva arrivare Givra, era un luogo dove le persone con problemi di obesità andavano a curare la mente oltre il corpo, e nella saletta c’erano due porte, una aperta alle mie spalle, ed era quella da cui ero entrata, e una chiusa esattamente di fronte all’altra, chiusa e buia, in una zona in ombra della stanza, tanto che non la si notava nemmeno (ma invece era verde scuro, un verde cupo di bosco e di ombra e aveva la maniglia pure). Tra me e la parete di fronte dove c’era la porta, c’erano due poltrone, due Frau come quelle che ho in sala io, e alla sinistra un televisore piatto mostrava delle immagini in movimento coperte dal menù a tendina dove c’erano scritte informazioni inutili sulla frequenza dei canali (inutili per me che non avevo intenzione di guardare la televisione in quel momento). Seduto su una delle poltrone il figlio grande di J (J fu il mio grande amore) che soffre di obesità e che io seguo su Facebook nelle sue giornate perse tra il calcio, i weekend a bere in maniera smodata, le giocate della schedina, la macchina nuova (lui ha 21 anni ed è già alla seconda Golf), il nuovo iPhone 5, e le piccole poesie d’amore per delle ragazze,  poesie che scrive di nascosto e che mi dicono molto di più di quello che lui stesso pensa.  

-       Ciao- mi ha detto, coprendo l’imbarazzo con un moto di noncuranza, e mi ha guardato con gli occhi azzurri che sono quelli del padre – lo so cosa pensi, - mi ha detto- io non capisco cosa ci hai trovato in mio padre, davvero non capisco, comunque voi adulti siete così, avete fatto quello che volevate, io lo so cosa volevi tu e so anche perché è successo. Vedi? E’ un cretino, mio padre è un cretino.

Mi sono incuriosita, perché io mai ho pensato che suo padre fosse un cretino, e io so che abbiamo fatto delle scelte e consapevolmente le abbiamo portate avanti, e certamente le cose sarebbero potute andare in maniera diversa ma invece abbiamo agito così, e poiché lo abbiamo con integrità di coscienza, ritengo che abbiamo fatto la cosa giusta anche se siamo lacerati, dilaniati e offesi dentro (che io ho sofferto e urlato al mondo il mio dolore e lui invece lo ha chiuso dentro di sè, - come stai- gli ho scritto un giorno – Sono come mi avevi detto tu: sono un faro spento, ma sto in piedi- e non ci siamo più sentiti che le nostre vite hanno preso strade diverse e impegni con altre persone che non possiamo più tradire ormai, la nostra integrità di coscienza ce lo impedisce).

-      -  sono qua assieme al gruppo di Givra perché stiamo facendo un lavoro bellissimo, invece di lavorare sulla punizione del nostro corpo e sulla privazione (noi che già siamo stati tanto privati di tutto il necessario), portiamo fuori quello che abbiamo dentro, e lo rendiamo fisico e tangibile, mettendo sulle tele i nostri colori, tagliando con le forbici le stoffe dei patchwork incollando con la vinavil le tessere dei mosaici sopra le tele già fatte (come peraltro hai fatto anche tu nel sogno dell’altra notte), e il peso che abbiamo dentro va fuori. Ma fuori non fa casino, ma anzi, diventa espressione di noi e agli altri piace, la chiamano arte invece è ripresa del controllo del nostro corpo, è liberarci dall’inutile che ci trasportiamo addosso, e adesso che sei qui vedrai come ti diverti, che c’è una stanza con i tavoli azzurri delle scuole medie tutti messi insieme, e sopra lì puoi fare le cose che vuoi, per due di lavoro ogni settimana, una perdita di peso costante, che cazzi ci fai qui, mi piacevi tanto Nina, sei stata un dolore anche per me che mia madre mi ha buttato addosso perché lei aveva bisogno di un alleato e io sono stato dalla sua parte.

A quel punto l’ho guardato, mentre era seduto sprofondato nella poltrona dai braccioli grossi, e mi sono seduta sul bracciolo a fianco a lui ma lui si è alzato, ho visto che avrebbe voluto fermarsi e abbracciarmi, ma veniva gente da fuori e un ragazzo non può mostrare la propria debolezza, - non voglio smancerie- mi ha detto, e ho notato come fosse effettivamente dimagrito, ancora di stazza robusta ma dimagrito da quei chili che si porta addosso di giorno, - vengo anche io! Posso?- ho chiesto fiduciosa.
Dal fondo del corridoio Givra assieme a un altro gruppetto di persone ci ha chiamato. 
Lui mi ha detto.- fa quello che vuoi, a me non importa- e si è incamminato nel corridoio da cui ero entrata.

Mi sono svegliata che erano le 6 del mattino e sono corsa in bagno dove ho vomitato.
Poi sono tornata a letto e ho ripreso a dormire.

(ah, la tavola l’ho sistemata io dopo, eh? Bell’amiche!!!)



Commenti

Post più popolari